
Anche quest’anno chiudo gli aggiornamenti di oggi pensando al tragico evento del terremoto dell’80 ed alla memoria delle tante vite strappate da un crudele destino il 23 novembre di 41 anni fa. Per Loro questo mio scritto, di tempo fa, e le mie, le nostre preghiere, di oggi e voglio aggiunmgere in fondo anche un articolo al riguardo che mi mandò il caro amico e giornalista Carlo Franco che ancora oggi tutta Masssa piange. Ciao Carlo la nostra preghiera è pure per Te oggi.
23 Novembre 1980 e giorni successivi!
Era una domenica, e chi se la scorda più, una domenica uguale a tutte le altre che trascorrevo da studente universitario mantenuto dai miei: la mattina si era andati con l’autobus di Lucio ad assistere alla partita dell’allora Juve Massa in trasferta dalle parti di Torre del Greco, ricordo che si passava vicino a quel convento che si vede in alto su quella collina dalla fermata di via Monaci della Circumvesuviana, il risultato non lo ricordo, mi ricordo solo che faceva un gran caldo per quel periodo. La sera, invece, stavamo in piazza, io, Gianni, Maria Grazia e Caterina, parte del nostro gruppo di amici del periodo, ad attendere alla solita ora, il solito “passaggio” per Sorrento, meta delle nostre quotidiane passeggiate, per un gelato o una pizzetta. All’improvviso, erano le 19 e 34, mi sentii percorrere da una stana sensazione come un malessere, sembrava che il mondo mi girasse intorno ed il campanile della Chiesa oscillasse paurosamente: “ragazzi” – esclamai –“non mi sento bene, mi gira la testa!”. “Anche a noi”, fu la risposta unanime dei miei amici. Fu un attimo, non so se di sorpresa o di paura e realizzammo (mi vengono ancora i brividi a pensare a quei momenti) quello che era accaduto. L’orologio del campanile si fermò a quell’ora, l’energia elettrica venne meno, tanti ma tanti abbaiare di cani e tanta tanta gente che arrivava in piazza da tutte le parti! I collegamenti telefonici saltarono, ricordo che quando dopo qualche ora, papà riuscì a tornare a casa (lavorava al cinema di Vico) ci disse che aveva vissuto uno dei momenti più brutti della sua vita dopo aver sentito del terremoto, delle prime notizie di vittime anche in penisola sorrentina e di non riuscire a sapere nulla della moglie e dei figli e solo adesso che ci vedeva sani e salvi, anche se impauriti, poteva sentirsi tranquillo: stava con la Sua famiglia, con la ragione della sua vita, insieme alle sue persone più care! Di quei primi momenti ricordo anche quando, uscendo dal municipio, il medico di guardia, (la guardia medica era lì situata) il simpatico dr. Iannone, Gli mando un saluto dovunque egli sia, disse che il comandante dei vigili di allora, il compianto Fois, quando sentì il boato successivo al terremoto esclamò: “ ‘E cche’ è già v’nut Natal’ chist’ann’!” ed invece mai potevamo immaginare noi, solo sfiorati, che immane tragedia stava avvenendo ad un paio di centinaia di chilometri di distanza! La cosa che più ricordo di quei primi momenti e dei giorni successivi fu la grande solidarietà che si stabilì tra i miei concittadini in quelle prime notti passate all’addiaccio nelle automobili. Non esisteva più il ricco o il povero, chi non aveva un’auto era ospitato da chi magari ne aveva due (che belle le auto dell’epoca, le 132, le 500, le alfa romeo come quella dei vigili o di Don Peppino, le 1100 come quella di Don Saverio, le ford fiesta primo modello, le lancia, ecc ecc) e persone di tutte le età si davano da fare a girovagare per tutta la notte con termos sempre pieni, di the, caffè e addirittura latte al cioccolato per i bambini, o a portare legna da ardere nei vari falò sparsi per le piazze. Ci volevamo tutti bene e pur nella consapevolezza del disagio e dell’esperienza dura che ci trovavamo a vivere eravamo in un certo qual senso felici di vivere quelle giornate. Ricordo, con un sorriso, la sera del 24 quando all’approssimarsi della stessa ora, tanta gente credeva, non so in base a che cosa, che l’evento si sarebbe ripetuto e forse in maniera peggiore e i loro sguardi sollevati, quando alle 19 e 35 nulla era accaduto. Prima di concludere (magari quando arriverò col mio blog a quel periodo approfondirò l’argomento), voglio renderVi nota un’esperienza personale vissuta in quei giorni. Essendo stato “assunto” come vigile provvisorio per il sisma, insieme ai tanti che poi son rimasti a farlo, e vada un sincero saluto agli amici di quei giorni, Bruno, Gennaro, Raffaele Galano, Umberto, il compianto Fiorenzo, Mimì, Lorenzo, Raffaele Mellino, il mitico prof. Joviero, Angelo e Giuseppe Esposito, e qualcuno mi perdoni se non l’ho citato, fui incaricato di accompagnare il personale della soprintendenza che stava redigendo un rapporto sui danni subiti dalle nostre Chiese a fare il giro delle chiese. Durante questo giro venni a sapere che a Pastena, ospitati dalla congiunta Carmela, moglie di un poliziotto in servizio a Sorrento. Il simpatico Pasquale, erano venuti, “sfollati” da Lioni, uno dei paesi più tremendamente colpiti dal terremoto, nell’alta Irpinia, la mamma, uno zio e le sorelle. Stringemmo una vera amicizia con quelle persone, sentivamo i loro discorsi su quanto avevano vissuto, vedevamo i loro occhi riempirsi di lacrime nel raccontarlo e partì una vera gara di solidarietà nei loro confronti. Un giorno che dovevano ritornare al loro paese per svolgere alcuni adempimenti, mi chiesero se volevo accompagnarli a vedere il loro paese distrutto: di slancio accettai e al mattino presto partimmo. Un paio d’ore di viaggio, la Napoli Bari, uscita Grottaminarda e poi la statale vesro Sant’Angelo dei Lombardi – Lioni. Erano posti bellissimi in mezzo al verde, ma c’era un qualcosa sempre più di drammatico, intere code di camion militari, ambulanze, elicotteri e tante macchine con i bagagliai stracolmi e piene di persone, soprattutto di bambini impauriti (scusate un attimo, mi fermo perché mi sta venendo da piangere) con il naso incollato al finestrino. Ma il peggio doveva ancora venire, quando arrivammo a Lioni, vidi uno spettacolo che non dimenticherò più e che avevo visto solo nei film, praticamente il paese non c’era più, centinaia di case distrutte e quelle che non erano cadute, si erano accartocciate paurosamente su se stesse…..
Nel campo sportivo un enorme accampamento, con grosse tende destinate ad ospitare i sopravvissuti, alcune più grandi che facevano da Chiesa, Scuola e da Sala Pranzo. Alcuni piangevano, dicendo che non c’erano più bare per seppellire i tanti morti e che comunque si doveva fare in fretta per evitare epidemie anche se il freddo di quelle montagne dava comunque un aiuto. Di quella gente di montagna ricordo comunque la fierezza, il saper accettare quello che stava capitando loro e la voglia di rimboccarsi le maniche e di agire soprattutto per aiutare quelli che erano rimasti ed erano più bisognosi di aiuto. Era un popolo di emigranti ed in occasione di quella tragedia erano tornati per aiutare i loro congiunti o per seppellire i loro morti, gente dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia ma soprattutto dall’Argentina e dal Venezuela, gente che tornava dopo decenni con i loro figli che non avevano mai visto la terra natia dei propri genitori e adesso la vedevano ridotta ad un cumulo di macerie. In quel giorno mi resi conto, forse per la prima volta, che la vita è costretta un giorno, quando Dio vuole, a finire: fino ad allora non avevo avuto esperienza dirette di questa Sorella, per dirla alla San Francesco, – i miei nonni, erano morti quando ero piccolo, poi ho conosciuto il dolore struggente per la perdita del mio angioletto Alexanda, di papà, di mio suocero e di tanti zii, e realizzai, promettendo a me stesso, che fino quando ne avessi avuto il tempo, avrei sempre dovuto cercare di fare qualcosa di buono per gli altri: da allora spero sempre di rispettare quella promessa fatta al cospetto di quel triste scenario. Insieme a quegli amici ed ai loro familiari pranzammo nell’accampamento e, ricordo, che mi fecero mangiare salumi e formaggi buonissimi, andati a recuperare in quel che restava delle loro case, e me ne diedero anche da portare a casa! Non avevano niente ma quel che poco che avevano, era di tutti!
La sera quando ci preparammo a partire, salutarono parenti e amici e piangendo, si scambiarono la reciproca promessa che sarebbero tornati (come infatti fu dopo qualche anno) perché quella era la loro terra e là sarebbero tornati a qualunque costo! Fin quando rimase a Pastena la signora Carmela, rimanemmo in contatto con quella famiglia e l’amicizia continuò anche dopo: ricordo che ci invitarono anche al matrimonio della sorella Antonietta a cui, felice di andare, mi recai con mamma, alla guida della nuova 126 verde di papà, che un po’ riluttante e con tante raccomandazioni, mi aveva concesso di prendere. Erano passati solo un paio di anni, ma quella gente laboriosa d’Irpinia, aveva ricostruito il loro Paese: quando arrivammo, in una splendida giornata di sole, sembrava non avere nulla in comune con il paese visto distrutto solo qualche anno prima: solo i contorni delle colline e la strada erano rimaste gli stessi, per il resto tutto cambiato, nel campo sportivo si disputava la partita, la Chiesa con le campane era stata ricostruita al suo posto e così la scuola, il palazzo del comune. Solo al posto delle case c’era un’enorme distesa di fabbricati che a vederli sembravano anche belli come villette ma non appena entrati si capiva quanta sofferenza doveva ancora essere vissuta da quelle fiere genti: “Lello”, mi diceva Carmela, “ speriamo di avere al più presto una vera casa, perché in questi prefabbricati fa caldo d’estate e freddo d’inverno e i bambini si ammalano e gli anziani soffrono”. Allora capii quanto può essere importante vivere tra quattro mura che son mura! Le chiesi di voler andare al Cimitero per rendere omaggio recitare una preghiera per le tante vittime, e rimasi colpito da quelle centinaia di tombe che recavano impressa la stessa data di morte, 23 novembre 1980 ma gli anni più disparati di nascita, ’54, ’61, ’29, ………ma quelle che mi riempirono il cuore di tristezza e di dolore, se ce ne’era ancora spazio, furono quelle con impressi gli anni ’77, ’78, ’79, ’80, quelle di tanti bambini chiamati ad essere angioletti troppo presto……………………..In Loro ricordo questo mio scritto………
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Ricevo e ringraziandoLo per le Sue belle parole un commento dell’amico e giornalista Carlo Franco, che voglio ancora ricordare e sentirlo vicino a Me ed alla Sua Masdsa, sul mio post relativo ai ricordi che mi tornano in mente ogni 23 novembre. Non sapendo ho messo la foto dell’articolo scritto proprio dal nostro amico giornalista. Grazie Carlo:
Ho molto apprezzato la tua iniziativa, mi hai fatto tornare i brividi perché i ricordi, quando si riferiscono ad una tragedia che non ha eguali nella nostra storia recente, provocano reazioni emotive fortissime anche a distanza di 37 anni e riaprono ferite che il tempo non ha rimarginato del tutto. Bellissima iniziativa la tua, mio caro Lello, ma consentimi di muoverti un fraterno rimprovero. La pagina del Mattin o che poi ha fornito ad Andy Warhol l’ispirazione per un quadro famosissimo, riproduce il primo dei miei rèportage dall’Irpinia. Due ore dopo la terribile scossa partimmo da Napoli con il fotografo e da allora ogni giorno- per un anno intero – ho raccontato il disastro del terremoto. Facemmo tappa a Lioni e qualche chilometro prima di arrivare in paese la strada che percorevamo si aprì in seguito ad un fremito del sottosuolo: ci salvammo per miracolo. Nella mia carriera di cronista in viaggio per disastri ho ilo terremoto del Belice, quello – cioè senza vittime dell’Irpinia nei primi anni sessanta e, infine, quello devastante del Friuli, ma solo quello del 1980 è impresso nella mia carne e nel mio ricordo. E’ stato il terremoto della mia gente, i contadini delle terre dell’osso, sangue del nostro sangue, non lo dimenticheremo mai. Ciao e un caro saluto a tutti.
Carlo FrancoEd aggiunge, che belle parole, grazie ancora Carlo:
Ricordare il terremoto non deve essere un rito. Meglio tacere se non si ha niente da dire. Meglio ancora, però, se, come avete fatto voi, si sceglie di far rivivere, soprattutto a chi non le ha vissute, quei giorni tremendi. Il bilancio fu agghiacciante, ha fatto bene Roberto Saviano a ricordarlo: 2914 morti, 8848 feriti, 280mila sfollati. I numeri non mentono: l’Italia che non è in grado di badare a se stessa venne schiacciata ma, paradossalmente, riuscì a salvarsi rimboccandosi le mani. Tutti, nessuno si tirò indietro e fu una splendida gara. I volontari arrivarono prima ancora dei soccorsi ufficiali, la gente comune si prodigò più e meglio dei politici. Un solo esempio: noi del Mattino – una task force di 55 giornalisti, un record – riuscimmo a contare i morti prima del Viminale girando senza un attimo di sosta tra le tendopoli. Il terremoto è questo e tutti i terremoti sono uguali, quelli dell’Irpinia e quello di Amatrice e di Norcia. Trentasette anni dopo, vogliamo dire, la ferita è ancora sanguinante. E la ricostruzione è ancora un capitolo da completare perché ha seguito criteri non consoni allo stile di vita e alle regole di una economia montana primordiale ma a suo modo capace di garantire la sopravvivenza ai contadini delle terre dell’osso come li definì con straordinaria efficacia Manlio Rossi Doria. Gli architetti calati da ogni angolo del mondo ritennero che fosse giusto sostituire le abitazioni rurali isolate e distanti l’una dall’altra con palazzoni similgrattacieli. Spezzando, di fatto il miracoloso, anche se povero, equilibrio che derivava dal connubio strettissimo tra contadini e stalla. Tra uomini e bestie, ma nel senso nobile dell’espressione: la stalla, da sempre, è parte integrante della abitazione rurale e la casa, di conseguenza, ingloba la stalla. Se si recide questo cordone ombelicale l’economia montana va a farsi benedire e si autorizza un ibrido destinato al fallimento. In Irpinia questo è avvenuto, almeno in parte. Ricordare, quindi, fa bene allo spirito ma anche alla coscienza e tu lo hai fatto pubblicando la pagina del Mattino che è la sintesi di quella tragedia: FATE PRESTO. In calce all’articolo che la pagina c’è la mia firma, quello, infatti, fu il primo mio reportage dal terremoto. Durò oltre un anno la del giornale, ma non fu fatica sprecata. Mi fa piacere ricordarlo anche come omaggio alla memoria del direttore del giornale, Roberto Ciuni.Carlo Franco